“Non riesco a staccare!”: quando il lavoro diventa una droga

Francesco Ferranti

Francesco Ferranti

Psicologo - Psicoterapeuta

Disposto a tutto per te!

Nei precedenti articoli, abbiamo visto come la dipendenza affettiva si nutre delle relazioni più strette, in particolare dell’amore e dell’amicizia, ma non è da escludere che possa svilupparsi anche in ambito lavorativo e associarsi (anche in questo caso) alla paura dell’abbandono e alla scarsa autostima.

Perennemente infelice e insoddisfatto della vita privata, il dipendente affettivo trova, nel lavoro, la sua unica fonte di gratificazione e il rimedio contro la solitudine. Attraverso il successo professionale, cerca di provare a sé stesso quanto vale e di colmare il vuoto interiore che la vita privata gli provoca. Pertanto, pur di ricevere apprezzamenti e manifestazioni d’affetto, dai colleghi e dal capo, è disposto a tutto: sacrifica tempo, salute e affetti. È un impiegato modello, super efficiente, instancabile, perfezionista, talentuoso, sempre disponibile e pronto a fare gli straordinari.

Ha sete d’amore, ma non lo ricerca nelle relazioni: teme possano essere troppo instabili, incerte, e preferisce dedicarsi anima e corpo al lavoro, poiché ritiene che nessuno glielo possa mai portare via, avendolo meritato con sacrificio.

Ipersensibile a ogni segnale, il dipendente affettivo trema alla vista di un gesto di freddezza o di una semplice critica. Sviluppa comportamenti che sembrerebbero tipici di un ossessivo (non lo è necessariamente!); evita ogni distrazione per non rischiare di commettere errori ed essere licenziato. Vuole piacere a tutti e non dice mai di no ad una richiesta d’aiuto, nemmeno quando proviene da gente che vuole solamente sfruttarlo: prova un irrefrenabile bisogno di sentirsi utile. Teme le ribellioni ed evita i conflitti con tutte le sue forze, scusandosi anche quando non deve.

Spesso, gli sforzi compiuti dal dipendente affettivo, per guadagnarsi la stima del capo, vengono travisati e gli attirano le gelosie e le inimicizie dei colleghi, a volte, anche per via dei suoi atteggiamenti critici, altezzosi e arroganti, atti a nascondere le sue insicurezze.

Non conosce sé stesso, né i suoi limiti e avverte un eccessivo bisogno di oltrepassarli in continuazione, per convincersi che ha un valore per cui possa meritare di essere considerato. Col tempo, però, i suoi record giornalieri diventano la normalità a cui i superiori fanno presto ad abituarsi, dimenticandosi delle congratulazioni e delle adulazioni, trascinandolo nell’ombra.

 

Cosa lo fa crollare?

Quando perde il lavoro, gli cade il mondo addosso, perché per dedicarvisi ha trascurato tutto il resto e non ha più nulla a cui aggrapparsi; a volte, finisce per trarre sollievo da altre dipendenze. Si abbandona alla depressione, vivendo col rammarico di aver perso l’impiego per colpa sua, nonostante tutti gli sforzi fatti per cercare di mantenerlo. Non è raro che il dipendente affettivo sviluppi anche la sindrome da burnout.

Il licenziamento può essere percepito in due modi differenti:

  1. Un fallimento per cui continuare a piangersi addosso;
  2. Un’occasione per cambiare vita, una svolta positiva.

Per il dipendente affettivo, la depressione può essere il momento giusto per ristabilire le sue priorità, per dare ascolto ai bisogni che ha represso da troppo tempo, per imparare ad accettare di essere imperfetto e di commettere degli errori.

La depressione è comunque un disturbo serio, non va trascurato (qui spiego il suo funzionamento), è fondamentale rivolgersi ad uno psicologo/psicoterapeuta e superarla insieme.

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